Navi Shardana

I Popoli del Mare | Le Navi

Le Navi dei Popoli del Mare

I Popoli del Mare | Le Navi

Un ritrovamento avvenuto nelle coste britanniche di alcune navi a prora alta, datate 1350-1300 a.C. ha fatto pensare a navi egizie arrivate in passato su queste isole intorno a tale periodo. Come sovente accade in questi casi, si segue la strada tracciata dagli scrittori classici.

Si dà per scontato che tutto quanto ritorna dal passato appartiene sicuramente a quelle Civiltà universalmente conosciute attraverso i testi canonici tramandati dai Romani o dai Greci. Invece in questo caso sembra proprio che non sia così. “Sappiamo, infatti, che le isole del Nord furono colonizzate da popolazioni provenienti dall’Anatolia (o in ogni caso dall’Asia Minore, N.d.A.) intorno al 1180 a.C.” (Myles Dillon e Nora Chadwic). O addirittura a metà del III millennio secondo Leon E. Stover.

E fin qui concordiamo con quanto ipotizzato da Lorraine Evans nel suo Kingdom of the ark.

Ecco i fatti: nel 1937 vengono trovati tre vascelli antichi ancora intatti a North Ferriby (Yorkshire), per la loro caratteristica forma allungata, con scafo arrotondato e prua alta, sono classificati come navi vichinghe.

Alcuni alberi vengono portati al National Maritime Museum per essere analizzati col C-14. Incredibilmente si ha un risultato delle analisi che data le imbarcazioni intorno al 1350-1300 a.C. Il dott. Sean McGrail le paragonò alle imbarcazioni ritrovate a Giza, proprio per la caratteristica prua alta.

Basandosi su questi dati un’altra eminente ricercatrice, la dott.a Evans, ha azzardato l’ipotesi di uno sbarco di gente egizia del periodo di Amenophe IV (Akenathon), supportata anche da alcuni ritrovamenti di monili provenienti da Tell-el-Amarna (Aketathon), la nuova capitale che Akenathon volle per soppiantare Tebe, sede del Culto di Ammone.

Tali oggetti vennero trovati nei tumuli della tarda età del bronzo, nei pressi di Stonehenge. Inoltre ella sostiene che un altro nome di Akenathon fosse Rathotis, lo stesso nome del padre della principessa Scota, che la mitologia racconta essere la progenitrice delle Genti britanniche.

Pur ammettendo che la Evans, citando gli Egizi, è andata molto vicino a una verità che li coinvolge in maniera importante per via di Mosè, dello stesso Akenathon e della Misteriosa Tribù di Dan, sosteniamo che non si tratta di navi egizie, né di navi vichinghe vere e proprie, ma di ben altro.

Chiaramente non abbiamo visto da vicino queste navi, ma la descrizione che ne fanno i loro scopritori, oltre a corrispondere alle navi vichinghe, ricordano in modo inequivocabile quei modellini di navi in bronzo ritrovate a Cipro, in Toscana, nel Lazio, nelle tombe di Cerveteri, Vetulonia, Gravisca ma soprattutto in Sardegna, in decine di esemplari.

Esse riproducono perfettamente delle navi a prora alta, con protome animale (cervi, antilopi, gazzelle), con uno strano albero terminante spesso con un più strano anello rotante, che ha tratto in inganno i nostri illustri studiosi portandoli ad affermare che non si tratta di modelli di navi, ma di lampade ad olio(!) Questa affermazione dimostra la leggerezza con cui alcuni studiosi si avventurano in giudizi che altri non si sognerebbero mai di dare.

Non vogliamo togliere niente agli archeologi, ma se qualche volta si affidassero a tecnici quali ingegneri, (ingegneri navali come in questo caso), avrebbero delle incredibili sorprese.

Intanto azzeriamo immediatamente la stupida ipotesi delle lampade, poiché molte delle navicelle hanno il baricentro spostato in avanti e questo le porterebbe, una volta appese al soffitto (tale sarebbe il compito dell’anello rotante), a rovesciare inevitabilmente l’olio in esse contenuto. C. Zervos, ricordando le navi scoperte a fianco alla Grande Piramide, sostiene che le navicelle sarde sarebbero degli ex voto che accompagnavano il defunto nel suo viaggio verso l’Oltretomba.

Ipotesi che a nostro parere non cambia il fatto che esse siano opera di un popolo dedito alla marineria, poiché un popolo di pastori e di montanari avrebbe offerto ben altro agli dei per ingraziarsene i favori.

Altri ancora, pur sostenendo trattarsi di modelli di navi vere, le attribuiscono ai Greci o ai Fenici, senza neanche soffermarsi sul fatto che sia le navi greche, che quelle fenicie sono del tutto dissimili.

Se una somiglianza c’è con altre navi, è solo con quelle dei Vichinghi, che però arrivarono secoli dopo (e che forse discendevano proprio dai Shardana che colonizzarono le isole del Nord).

Ma vogliamo elencare gli studi affascinanti fatti da F. Bruno Vacca nel suo “La civiltà nuragica e il mare”. Egli sostiene, infatti, che tali modellini sono la riproduzione perfetta delle navi shardana, navi da carico a chiglia piatta e con quattro alettoni stabilizzatori. E da corsa, più leggere, a chiglia curva.

Gli studi che il Vacca ha fatto sulle navi da carico lo portano a pensare che i Shardana conoscevano il principio di Archimede parecchi secoli prima della sua scoperta.

Questa affermazione riguarda le imbarcazioni a chiglia piatta, autentici cargo per rotte oceaniche, lunghe fino a 40 m. e con capacità di trasporto fino a 500 tonnellate, misure che il Vacca dice di aver dedotto da calcoli fatti sui modellini che sono l’esatta riproduzione in scala delle navi autentiche.

Effettivamente alcuni di questi esemplari esposti al museo archeologico di Cagliari riportano particolari talmente curati che viene da pensare che il Vacca abbia veramente ragione.

I quattro alettoni sistemati sotto la chiglia, che hanno indotto gli archeologi a definirli affrettatamente dei supporti per reggere tali modellini, sono sistemati con inclinazione di 45° rispetto al piano di chiglia e al piano del moto ondoso, col preciso compito di stabilizzare la nave anche col mare più agitato.

E’ perlomeno strano che questi supporti, se tali fossero, si trovino spesso nei modelli a fondo piatto (navi da carico) e non su quelli a fondo curvo (navi da corsa). Dovrebbe caso mai essere il contrario, poiché quelli a fondo piatto restano in piedi da soli, mentre quelli a fondo curvo si rovesciano.

Alcuni modelli presentano addirittura la linea longitudinale del limite di massimo carico. I modelli a fondo curvo non hanno, come abbiamo accennato, gli alettoni. Presentano però delle particolarità che lasciano perlomeno stupiti.

Lungi dal somigliare alle altre imbarcazioni dell’epoca e tanto meno a quelle arrivate in epoche più tarde, greche, fenice e romane, esse somigliavano invece alle fantastiche imbarcazioni vichinghe: i Drakkar.

La prua alta e la chiglia arrotondata consentivano all’imbarcazione di scivolare sulle onde, invece di fenderle.

Ciò permetteva una velocità decisamente superiore. L’altro particolare curioso è una sorta di albero sormontato da un anello rotante con una “colomba” appollaiata in cima.

Alcuni studiosi, gli stessi che considerano i modellini delle lampade, li classificano come anelli per appendere le stesse al soffitto; ma abbiamo già accennato che questa ipotesi è da scartare essendo gli alberi sistemati verso la prua e quindi oltre il baricentro dello scafo, cosa che porterebbe la “lampada” a rovesciarsi e a perdere l’olio in essa contenuto.

Il Vacca pensa si tratti di un anello in cui inserire un albero trasversale che sosteneva una vela particolare, la quale cadeva con due triangoli ai lati dello scafo. L’anello consentiva una manovra più spedita, permettendo di fare a meno anche del timone, oltre che dei remi, poiché tale accorgimento permetteva di navigare esclusivamente a vela sfruttando anche la brezza più leggera.

Tutto questo ci fa tornare alla mente quanto Alcinoo diceva a Ulisse, preoccupato per le ire di Poseidone e le furie del mare: “le navi dei Feaci non hanno bisogno di timone o di timoniere, ma vanno col pensiero dell’uomo e nere e lucenti solcano il mare e l’abisso sicure e indistruttibili, avvolte in una nube di vapore, conoscendo del mondo ogni contrada” (Odissea: VIII).

Se l’ipotesi formulata dall’ingegner Pincherle si rivelerà esatta, potremmo chiarire il mistero dell’anello rotante installato sulle navi shardana.

L’ingegner Mario Pincherle, esperto di Storia orientale, autore di diversi libri, fra cui Sargon di Akkad, la traduzione in italiano del libro di Enoch (il più antico libro del mondo), eminente egittologo, avrebbe rilevato su una stele cartaginese, in cui è raffigurata una nave da guerra, alcune incisioni che rappresenterebbero una bussola e un sestante!

Nelle immagini a seguire, prese a prestito dal mensile Hera, osserviamo la figura sul cassero   e confrontiamola con quelle a fianco. Si tratta di una sfera (o un cerchio, diciamo noi) sormontata da una sorta di mezzaluna o paio di corna (un magnete, secondo Pincherle), con due nastri pendenti (strisce di pelle) ai lati.

All’interno della sfera passerebbe l’asse che, piantato sul ponte della nave, a prora, reggerebbe sia la stessa sfera, che il magnete, consentendo a quest’ultimo di girare e puntare sempre a Nord-Sud con le due estremità, mentre i due nastri pendenti consentirebbero una più corretta posizione dello strumento che, in caso di vento o moto ondoso, poteva spostare di qualche grado la “bussola”.

L’ingegner Pincherle attribuisce quest’invenzione ai Fenici, progenitori dei Cartaginesi, ma noi sappiamo che i Fenici ereditarono la loro scienza da un popolo che nel 1200 invase il Libano, mischiandosi con le popolazioni locali e insegnando loro l’arte del navigare.

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Confrontiamo ora la nave shardana e quanto vi è sopra installato, con la nave della stele a fianco raffigurata: vediamo installato un albero verso la prora (invece che nel baricentro dell’imbarcazione, come di solito avviene per l’albero maestro che regge una vela).

Anche qui abbiamo un anello (o rappresenta una sfera?) sormontato da una mezzaluna (o paio di corna o una colomba, a seconda delle interpretazioni).

L’anello, secondo B.

Vacca doveva essere rotante. Cosa che consentiva, secondo noi, al supposto magnete di puntare sempre a Nord-Sud con le due espansioni polari.

E’ raffigurato anche uno dei due nastri “stabilizzatori”.

Per informazione del lettore precisiamo che su alcuni dei numerosi modellini ritrovati in Sardegna e in tutto il Mediterraneo, i nastri sono due o quattro e l’anello è perfettamente sferico, mentre il “magnete” ha l’aspetto di colomba stilizzata.

Ci rendiamo conto che l’ipotesi è azzardata, ma avremmo piacere a sentire una migliore e più corretta interpretazione dello strano albero e dell’ancora più strano anello e della “colomba”.

Ci piace immaginare i marinai Shardana indaffarati a poppa con gli occhi rivolti a quell’albero di prora che indicava loro la rotta sicura “senza bisogno di timone, né di timoniere”. Questa soluzione lascia però insoluto il problema della propulsione di tali navi. 

Come afferma giustamente il Vacca, questi modellini sono così curati nei particolari, da riportare in un modello ritrovato nei pressi di Aritzo, in Sardegna, una piccola “pezza” di bronzo con i chiodi, a voler rappresentare una riparazione della fiancata.

Eppure non esistono tracce di banchi per rematori, né fori per i remi.

L’ipotesi del Vacca dell’albero con anello sembrerebbe più verosimile, ma la scoperta dell’ingegner Pincherle rimane comunque affascinante.

Un’altra stele detta “Di Lilibeo” (Marsala), dedicata al culto di Baal Hammone, presenta affiancati, sia l’immagine di Tanit, sia (sulla sinistra di chi guarda) il “Caduceo-Bussola” e, al centro, un altro “arnese” dall’aspetto ugualmente “tecnologico”.

Tanit affiancata dal “magnete” è raffigurata anche in un mosaico ritrovato nell’antica Karalis (Cagliari). L’immagine è riportata in questo libro, nel capitolo dedicato alla Tecnologia shardana.

L’altro oggetto al centro della stele affiancata a Tanit ricorda lo Zed degli Egizi.

di Leonardo Melis

Sisara Generale Sardana in Israel

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